Il lavoro rende liberi. Arbeit macht frei scritto all’entrata di Auschwitz, luogo di libera operosità generato da libere menti tedesche. Il lavoro è fatica – vaco a faticà – dicono a Napoli quelli che ti mettono la verità in faccia, giusta giusta nella parola che pronunciano. E se qualcuno (o meglio qualcuna, Hannah Arendt *) ci mette in guardia dall’onnipervasività del lavorare nei confronti delle altre forme dell’agire umano, è certo che oggi siamo grondanti di questa agognata libertà individuale frutto esclusivo di chi produce, fatica, inghiotte amarezze, sgomita al momento giusto (col più debole) e consuma sempre.
E se la semplice tripartizione dell’agire in lavoro, opera e azione * che Arendt tenta non è affatto semplice e non mi convince poi tanto, trovo invece perfettamente intatta la famiglia semantica che una società di lavoratori e consumatori porta con sé : ipertrofia del privato, competizione, invidia, diffidenza, in genere egocentrismo, sia nella forma narcisistica che nella sua variante vittimisticaa-sacrificale, proprietà privata, naturalmente, come unico indice assiologico della propria identità.
Resta in auge l’ideologia del self made man, ritoccata però in versione italiana : l’uomo che s’è fatto da sé merita di apparire in pubblico (e nel politico) solo quando ha rimosso fino infondo il suo punto-origine di povertà, id est di nullità da cui è partito nella scalata al successo. E’ un uomo, il mitico self made man italiano, di una memoria miope e falsificante, di un carattere imploso per vergogna e sempre sulle difensive. A vedersi in giro si riconosce dai modi straimpostati e dalle smanie ostensive, è facile ad irritarsi e diventa subito razzista e xenofobo appena se ne presenta l’occasione. Non parlate agli emigrati del sud Italia di cinquant’anni fa di migrazione e nuove disperazioni altrimenti imprecheranno contro di voi.
Di questi uomini coriacei tuttavia, che hanno ‘faticato’ nella loro povera vita sognando dignità e rispetto e oggi tornati a casa sono i più sordi davanti ai nuovi migranti extra (comunitari) proprio come lo sono stati loro, extranazionali e pre-comunitari in Belgio, Svizzera, Germania e Olanda, per ragioni di età ce ne sono oggi più pochi. La stragrande maggioranza dei self made men passa veloce per le strade nelle vesti perpetuamente leccate di agenti immobiliari e di mutui bancari o nell’avanguardia tecnologica degli operatori delle nuove comunicazioni, incomprensibili sul serio quando ti parlano delle ultime novità di PC e cellulini. Giovani, sembrano nati rampolli impacchettati, parti rapidi e indolore del nuovo mondo. Una pioggia di piccoli siluri della mia età che pensano di andare dritti alla meta, al lavoro come all’Università e in tutti quei master e corsi di formazione e specializzazione e iperspecializzazione in cui ci impiastricciano l’esistenza e ci costringono ancor più squattrinati vendendo competenze professionali e tecniche infallibili di empowerment per rispondere a un call center.
Ora, nonostante specializzazioni e sgomitate, quasi nessuno dei nuovi self made men si fa davvero da sé : l’Italia è la terra della grande famiglia, del baronaggio spinto, del “chi ti manda” e delle mazzette. Il presunto nuovo self-made-man deve essere già qualcuno, ce lo deve già avere un certo nome, un bel po’ di soldi in tasca per comprare vendere e scalare, deve sapersi muovere felino nella giungla degli opportunismi trovando senza perder tempo a chi chiedere cosa e a chi dare. E’ un animale sociale che fiuta l’ambiente, scansa trappola mentre ne prepara delle altre, è un architetto che disegna mappe segrete di agganci e spinte, il nostro self-made-man.
Certo, qui da noi il numero di chi segue molto semplicemente la linea solcata dalla sua casata rimane sempre alto e costante, in questo caso non ci vuole tanta astuzia ma solo comodità e forza di inerzia : siamo pieni di elenchi telefonici e targhette con padre avvocato, figlio avvocato, padre medico, figlio medico, padre notaio, figlio notaio, padre professore universitario, figlio idem ecc. Generalmente la linea ereditaria è per parte maschile, la donna non compare mica tanto in questa seriosa consegna intergenerazionale, forse perché solo due generazioni fa la donna non aveva niente da consegnare. Capiamoci, niente da consegnare nel mondo del carrierismo e delle professioni fuori dalle mura di casa, tutto da consegnare, invece, quanto ad amore e tenerezza senza i quali non cresci o cresci male, quanto a lasagne e polpettone fatti in casa e lavorati un giorno intero. Ricordo appena la continua solida accoglienza del silenzio di mia nonna. In questa consegna femminile mi brucia di aver mancato quasi tutto, di essere stata nel tempo giusto a mani aperte da un’altra parte, dando giusto un’occhiata al tavolaccio di legno dove la domenica si faceva la pasta.
Mamma è poi velocemente passata alla rosticceria (already made food, fast food ecc.) e ai predecessori dei quattro salti in padella, avendo un lavoro una figlia non più un marito e un padre vecchio da assistere. Io, quindi, sono rimasta incastrata in questo buco di mancata consegna. Torniamo ai nostri self made men corrotti, ops, corretti all’italiana. Dei minatori emigrati nel nord Europa e tornati xenofobi oggi ce ne sono ormai pochi, dicevamo, sia per l’età che per il veleno che si sono mangiati. Dei giovani agenti immobiliari, assicuratori & company presenti un po’ ovunque a stoccafisso non si può certo parlare di un modello di self made man riuscito, il loro sorriso stampato è un digrignìo di denti, vivono e crepano nella stessa precarietà in cui siamo immersi tutti noi giovani promettenti
Paradossalmente strozzati tra l’iperspecializzazione richiesta per qualsiasi idiozia di lavoro e contratti tagliati per principianti e stagisti. Il nuovo mostro è il principiante professionista, che appena hai imparato qualcosa e lavori bene arriva e ti spazza via perché costi troppo e rischi di essere pesante.
La casta eterna degli uomini di nobili natali e famiglia corazzata, infine, contraddice internamente il modello in esame, quello dell’uomo che si fa da sé, che all’origine è nessuno e può essere chiunque, parte da solo e vince. Chi sono, dunque, i nostri autentici self made men ? L’unica persona che conosco che dalla difficoltà più nera, dal sotto zero di una partenza che è stata una fuga, dalla solitudine e dallo sradicamento, dalla fame e dal freddo s’è fatto da sé si chiama Mohamed Dighel. Ma a questo punto bisogna intenderci davvero. Di tutt’altra testa, cuore, mondo si tratta. Di un’instancabile e onesta operosità che nasce dall’esatto contrario dell’impostazione del nostro self made man : nasce e vive, faticando sì, nel sorriso e nell’Inshallah. Nasce e vive senza idealizzazioni con i calli alle mani e quattro ore di sonno a notte, dalla solidarietà che porta con sé e alla quale si dà. Dighel è un invito chiaro a lasciare l’illusione allettante dell’uomo che si fa da sé. A otto anni era già al lavoro in una piccola bottega di alimentari in un villaggio del Darfur. Velocemente impara a far di conto e velocemente velocemente è messo alla cassa di una mensa- ristorante, impiego di molta responsabilità.
I padroni annusano in lui, là come qua, l’aria di uno che può mettere le mani nei soldi degli altri e non solo proteggerli ma farli crescere anche e restituirli fino all’ultimo centesimo. Da cassiere diventa tappezziere, poi lavora in un’officina meccanica continuando ad aiutare il padre in bottega. Lui però ce l’ha ben chiaro chi vuole diventare, elettricista, ma non c’è possibilità di mollare i lavori per studiare. La guerra in Darfur, che non è arrivata né arriva mai per fatalità, l’ha costretto allo sradicamento. Dighel attraversa il deserto insieme a migliaia di piedi senza nome fino alla Libia, si imbarca in uno di quei carretti che di vista conosciamo bene, aspetta. Prega, soprattutto, guidato da un Caronte improvvisato che per non pagare il caro prezzo del “viaggio della speranza” s’è finto esperto geografo e crede (o spera, o prega) di mirare dritto alle coste dell’Italia.
Condotto da non si sa chi, su un mare che non si sa quando e dove finisce, nel tempo buio delle onde senza vedere terra, nel tempo straziante della fame del freddo della paura del ghiaccio di chi ti è seduto affianco o appiccicato addosso e non ce la fa e muore e viene buttato in mare, Dighel prega. Arriva a Lampedusa tramortito e qui ha inizio l’avventura italiana. Al Kherba, Roma Tiburtina, è la prima stazione di arrivo di un incubo. Ecco una nuova vita – tarantelle infinite di nuove umiliazioni in Questura come per strada e il capogiro di tutti i lavori a nero a cui non dice mai di no – da quattro anni che lo conosco s’è fatto in tutto tre giorni di vacanza per andare in Francia dal cugino che per il dolore è uscito di testa. Quando torna da Parigi Dighel non è affatto riposato, suo cugino bello e giovane è diventato un mostro, vive in un ospedale con le sbarre, non passa dalle porte per quanto è ingrassato, le medicine l’hanno gonfiato “come un palloncino”, ci racconta, non riconosce nessuno, ha la bava alla bocca. Dopo di che Dighel torna a lavoro a montare bancarelle tutti i giorni alle cinque di mattina.
Passa l’inverno a Roma tra bancarelle e l’estate nei campi vivendo di pane tonno e veleno delle nostre coltivazioni intensive. E’ bancarellaro, lavoratore stagionale a raccogliere pomodori, uva, olive, patate a Foggia, Stornara, Vieste, Montalcino. Il padrone passa e carica chi vuole di notte, Dighel o Mobarak o chi si svende meglio e conosce il caporale di zona. Il lavoro è a giornata, la paga è di otto, sei, quattro euro a cassa di pomodori raccolti, ma la cassa non è mica quella che arriva da noi al mercato, è alta almeno mezzo uomo e larga tre o quattro. Quattro euro per un quintale di pomodori raccolti.
Intanto Dighel ha il foglio di via da cambiare in permesso di soggiorno, si vede che non c’era tempo al campo per fare richiesta d’asilo e così lo fanno uscire clandestino, entro quindici giorni, c’è scritto sul foglio, deve lasciare l’Italia. Associazioni di volontariato, avvocati, file e attesa di un anno e mezzo. Viene riconosciuto rifugiato, Inshalla, ma il suo amico che ha una storia identica di persecuzioni e tortura no. Continuando a lavorare a nero, si iscrive a una scuola serale per elettricisti, non dorme lavora studia e l’Inshallah – se Dio vuole – resta il bassofondo di ogni istante di vita. Sconcerta questa fede che resta a dispetto di ogni ferita, insensatezza, ingiustizia, miseria. E’ come se dicendo Inshallah, e credendoci davvero, non si fosse mai disperati e soli : se la disperazione è un affare privato, l’Inshallah è al contrario già un atto a due, un dialogo fiducioso, una parola rivolta, un’offerta all’ignoto. All’ignoto o all’estraneo, allo straniero, all’incomprensibile, al mistero che mi tiene. E’ forza e direzione, non rassegnazione supina. E’ assunzione che mi sposta dal centro del mondo e mi fa andare avanti trovando nuove collocazioni, malgrado tutto.
E’ fede e fiducia. Anche quando di ritorno da una giornata di lavoro nei campi un pischello siciliano passa in motorino, ti prende di mira e ti piazza una bastonata in petto. Senza perché, cioè perché sei nero. O quando Fidane, credente nell’Inshalla da parte cristiana copta però, scivola nel tempo breve del suo permesso di soggiorno per motivi umanitari da un lavoro all’altro, tutti pesanti e umilianti e pure ridicoli, tutti inesorabilmente a nero, senza una minima possibilità di uno straccio di contratto, l’unico straccio che lo farebbe restare in Italia senza diventare clandestino. Perché tra due mesi Kidane, eritreo ‘regolare’ fuggito dai lavori forzati e dalle carceri sotterranee in Eritrea, entrerà nel mondo dei clandestini. Dopo tre stagioni di lavoro nei campi del Sud, dieci mesi in una lavanderia industriale, quattro di carico e scarico merci per il corriere Bartolini (quei furgoni rossi che vediamo girare per strada fuori e dentro città) a Fiano Romano, cinque autobus per arrivarci e quattro-cinque ore di lavoro a notte pagate quattro euro l’ora.
Bè, di questo oceano di lavoro sommerso l’Italia campa e cresce. Di questa costellazione di lavoro illecito, sfruttato, sottopagato, avvelenato, l’Italia vive. Dei pomodorini Pachino e del Brunello di Montalcino è fatto il suo cosiddetto benessere. E insieme, della schifosa ipocrisia di una legge sull’immigrazione che prevede l’extracomunitario lavoratore in regola, forza-lavoro importata, normata e pulita, selezione dei disgraziati secondo un preciso metro economico da ‘integrare’ nel dispositivo del lavoro all’italiana. Ipocrisia insopportabile non solo perché Marx ci ha lasciato qualcosa come la verità del plusvalore, ma anche e soprattutto perché il modello dello straniero-lavoratore, migrante forzato perseguitato e torturato o economico non fa qui alcuna differenza, che arriva e sta a tempo determinato, fatica, produce, insomma si fa tollerabile agli occhi degli italiani, e se ne torna zitto a casa sua, è pura mistificazione delle vite reali e degli impicci che in Italia si giocano, di cui l’Italia ha bisogno, grazie ai quali appare quella che non è. Abbiamo bisogno, tremendamente, di disgraziati irregolari terrorizzati mascherati da terroristi. E li fabbrichiamo, insieme, irretendo i migranti nella chimera ossessiva della legalità costitutivamente a loro sottratta, della regolarizzazione, della normalità lavoro-casa-affari propri. E la politica ? C’è la televisione e il centro commerciale a riempirne il vuoto.
I richiedenti asilo che conosco e con cui lavoro chiedono una vita normale. La scommessa per me è però di intendere per normale il giusto. Chiedono una vita giusta in un paese un po’ più giusto del loro. Alì, richiedente asilo curdo iraniano, impazzisce quando si ritrova scaraventato dalla parte dell’ingiusto. Con un diniego in mano e un ricorso al Tribunale civile appena iniziato, lavora come stuccatore per campare ma per legge non può lavorare. Per legge deve solo aspettare uno, due, tre anni senza documento. E lavorando da due anni irregolare, una voce maligna fuori o dentro di sé gli continua a sussurrare che è pur giusto che a un irregolare come lui vada sempre a finire male tra beghe di mancato pagamento, imbrogli e minacce. Perché lui è segnato dal marchio dell’illegalità e nell’illegalità deve soccombere. Colpevole due volte, per aver lasciato la sua vita là e non esser stato degno di un’accoglienza qua. Non riconosciuto e non creduto – Alì impazzisce quando capisce di essere non creduto.
Dell’Inshallah dell’anti-self made man c’è poca traccia in lui. Intona canti iraniani struggenti e dice di non voler cantare perché non ha più la testa per farlo. Viviamo con lui una delle più brutte storie di ricerca lavoro e stiamo tuttora in alto mare. Un’ultima breve storia, quella di Abel, piccolo uomo eritreo che ci ha fatto innamorare in questo anno di densi incontri a intermittenza. Storia di un primo lavoro andato a puttane, parole poche che a intermittenza escono e dicono che è inutile dire. Abel vive la stonatura di discos american style e un’Eritrea-famiglia spezzata dalla fuga, di hashish a merenda e psicofarmaci prescrittigli per dormire, di un ritmo rap sempre più house e il silenzio magro e disincantato dei suoi occhi. Stonatura che cresce nutrita dal fantasma di una freedom in cui ognuno è libero di farsi da sé e dal fatto di essere rifiutato, un impiccio per la burocrazia italiana, un niente che vaga per strada. Abel ci crede di essere niente e vuole sparire. E’ stanco di credere in qualcos’altro, di volere qualcos’altro, visto che l’ultima cosa che ha voluto è vivere con suo fratello in Olanda ma la convenzione internazionale di Dublino l’ha rispedito tutto solo e con le manette in un campo in Italia. Quest’estate ha creduto a un lavoretto stagionale, e c’è cascato di nuovo. Novità, ci è venuto a raccontare tutta la storia che gli è capitata, questa volta. In una serata surreale di grigliate e musica sotto un grande albero mentre pioveva tutt’intorno un cielo arancio al parco della Caffarella, Abel è stato il nostro ballerino, l’assistente cuoco, il taglia pomodori e prepara l’insalata, uditore attento delle loro storie di viaggio raccolte e mandate per radio che, tremando per la ripetizione di un dolore che stavamo provocando, abbiamo restituito ai protagonisti di quel cammino.
Eccole, allora, le storie e i frammenti lasciati a comporre la regione di nome “chi non lavora non fa l’amore” ; speriamo prima o poi di poter restituire anche la seconda parte : corpi di chi, lavoro o no, l’amore lo fa.